Poesia che toglie il sonno

Dormire poco fa bene
ergo dormire troppo fa male,
dormire fa sognare, ergo dormire fa pensare.

Le mie ali di burro, si sciolgono sui fornelli,
le mie pupille di nero,
si sciolgono sui polpastrelli.

Segno grafico, sul bianco cosmico,
di un network isterico.

Scrivo per generare,
momenti disillusi e puri,
conchiglie di ferro su un letto di fiori.

Intingo le dita in un barattolo di colore,
perchè il monte ricoperto d'asfalto ha il dolore,
perchè la mia serrandina chiusa ha dei motivi,
il sole che entra nei miei polmoni.

L'ispirazione è uno spirito bastardo,
e ti possiede se gli va,
o ti spia da sopra una nuvola,
mentre fuma una sigaretta al mentolo,
e ride.

E segni, e lagne, e schizzi e strippi,
e strappi e gridi e graffi e sbatti,
e ti afflosci, sul pavimento,
bagnato del tuo sudore mortale.

Come un feto abortito,
ti contorci sulle piastrelle,
come uno scarafaggio calpestato.
Come un cane investito,
un poveraccio rapinato.

Come un tossico che sta male,
un musicista a cui hanno rotto la chitarra,
pagata con le mance di prostitute,
come le farfalle morte e risorte.

Io sono delirio,
l'ansia mi accompagna,
l'ho messa alla regia per risparmiare.

Ho sempre avuto caffè nel sangue,
così ne bevo poco,
pogo con un punk ubriaco e cado nel vomito di bruco,
nella tela di Penelope, il ragno codardo.

Nella tela di Vedova,
schiaffi in prosa per la tua realtà pomposa,
maestosa,
guarda come è rifinita in ebano,
la tua faccia di cera.
Una maschera da fiera,

sciolta nell'acido.

Uomini-lupo sempre in agguato,
cappuccetto rosso violentato.

Nel bosco si annida il respiro dell'albero,
il male del bastardo nascosto ad ogni angolo,
il chiurlo di montagna e un laghetto pieno di salme.

Mobili instabili pieni di tarme,
sull'argine del fiume che penetra nel blubanale,
tra i turisti in costume e una birra al tramonto sotto all'ombrellone.

Canto senza cantare la vita che vedo passare,
vestita da carnevale, ubriaca e pronta a scopare.

Canto senza cantare la vita che non riesco a capire,
è tutto un teatro di ombre e visioni.

E allora disegno qualcosa,
mi vesto e spacco l'armadio,
bevo come un dannato,
acqua imbottigliata che costa poco.

E allora disegno e bestemmio,
digrigno i denti col pilota automatico,
mangio unghie e sputo statue d'avorio,
sono un invalido teorico.

Non ho sicurezza nel portafoglio,
ma solo scontrini e cazzate,
non ho la faccia tosta e nemmeno il tostapane.

Anzi grazie che me le sono ricordato,
lo devo andare a comprare.


Sono le quattro e quarantaquattro,
come i gatti in fila per due,
fuori fa freddo, dentro fa caldo,
e io non voglio dormire.

Penso,
che cazzo mi metto a letto a fare,
se poi non mi voglio svegliare.

Meglio restare già sveglio,
coccolare la propria insonnia,
e domattina al nascer del sole magari mi faccio una canna.

Il muro bianco latte,
i piedi nelle ciabatte,
sopra la camicia a quadri
e sotto il pigiama a quadri.

Sul muro bianco latte,
solo alcuni quadri.

E l'intonaco cade,
ma la causa è giusta.

Voi sognavate la vita come le canzoni giuste,
io la volevo come l'urlo di Ginsberg.

Volevano farmi studiare Manzoni,
ma giustamente la pensavo in altro modo,
"i capolavori sono altri!"
e indicavo i buchi nei muri.

"I capolavori sono tanti!"
e contavo i miei capelli,
"i capolavori sono belli!"
e andavo ai concerti ubriaco di benzina.

Non ho una fine giusta,
per questa poesia lunga,
molti la eviteranno e faranno anche bene,
cosa vorrà capirci uno con un solo rene.

Non ho il finale che ti strappa l'applauso,
in genere mi perdo e mando tutto all'aria,
ma mentre lo faccio apro gli occhi e vedo,
 più di quel che credo.

Che fatica rimettere, due corde a una chitarra,
che fatica pulire i pennelli ogni volta,
che fatica intelaiare, che fatica studiare puntuale,
che fatica la nausea post-sbronza se non vuoi vomitare.

Che fatica fumare e studiare,
avere un'alimentazione equilibrata, pensare alla famiglia e farsi la doccia.

Grattarsi la testa è fatica, e anche cambiarsi i calzini,
cambiare lettiere, buttare la spazzatura, andare dalla psicologa e parlare,
meditare senza pensare, cucinare prima di mangiare,
che fatica scrivere restando credibile e dubitare.

Che fatica vomitare, che fatica respirare,
che fatica sfumare, e fare spesa,
che fatica salire le scale,
premere il due nell'ascensore.

Che fatica sentire la musica,
che fatica accendere il computer e pensare alla batteria,
che fatica rispondere ai messaggi e che dolore buttare gli avanzi.

Che fatica convivere insieme alla panza,
alle ossa che fanno una danza,
che fatica questi capelli,
lisci, mossi e ribelli.

Che fatica esser se stesso,
che fatica scaricare il cesso,
che noia fare tutto per bene e preciso.
Che fatica non mangiare tutto,
che fatica masticare e poi digerire tutto.

Che fatica pensare che morirete,
e io pure prima o dopo di voi,

che fatica sognare cosciente e scrivere i sogni,
che fatica decidere,
che fatica scrivere,
che fatica sedere,
che fatica vedere,

che fatica continuare,
che fatica.

Che fatica.







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