Distopia, il porto e le formiche

Fuga nevrotica dal brusio della famiglia.

Un pianto e un aspirapolvere sempre acceso.

Tra i discorsi sul denaro, e i dialoghi sul denaro.
Pensa a come guadagnare, pensa a venderti, pensa a fare soldi.

Tic.
Sì ci provo. 
Ci penso.

E il pianto e le urla normali,
e l'aspirapolvere 3000, 
sempre acceso.
E mio nonno è sordo.
E le urla,
il denaro,
mia sorella vuole giocare, ma è tutto suo.

Sì. Ci penso.
Mi assopisco leggendo K.Dick,
non ce la faccio a pensare.

Non vorrei dover pensare.
Provo a dormire, ma mi svegliano.

Mi alzo, prendo le chiavi e questo taccuino.
Mi alzo, esco corrucciato e intollerante.

Scendo le scale, non so dove andare.
Salgo la sella, inizio a pedalare.
Urla di bambini,
il treno passa e copre tutto,
pure il pensare.

Vende macchine, colorate,
mi corruccio sempre di più,
voglio il silenzio.

Pedalo,
c'è il traffico degli evasi,
pedalo, scalzo,
c'è moria di spazi.

Tutto è affare, tutto è venduto, impacchettato,
tra urla, colori, assemblamenti di persone,
il mare, travestito da puttana,
forse un pò mi nausea.

Le lenti degli occhiali, scuri,
unici scudi,
della mia misantropia,
 a caso.

Così la vedo da un punto interessante,
la distopia non è grigia come puoi credere.

La distopia è canotti verde fluo,
è vestiti brillanti,
è facce abbronzate,
sudate, confuse ed automatiche.

è bambini col gelato prescritto dal tubo catodico,
è famiglie al pascolo,
in zona neutrale,

è sovraffollamento inconcepibile,
un brodo di piscio e meduse neonate.

La distopia oggi,
non è desolazione,
bensì il contrario.

La distopia sta sugli asciugamani,
nelle automobili, in file interminabili,

la distopia non li spaventa, 
li guida,
niente nubi radioattive per ora.

Vacanze obbligatorie in date incastrate,
tornare in magazzino e prendere frustate a rate.

Così pedalo,
un pò automatico anche io,
cerco la mia isola deserta,
zigzagando, 
tra gli adepti del sistema.

Fino ad un 'ora fa, pensavo a come procacciarmi la cena,
vendendovi la mia roba oscena.

Il rombo s'attenua,
il flusso organico.

Entro nel porto,
sento la possibilità.

La possibilità di esserci.

C'è odore di morte,
ma è un odore vero,
mica sintetico,
 come la pelle dei turisti.

Sfreccio lento sul ciglio,
tra la strada e l'acqua salata,
attraversa solo un gabbiano, tranquillo,
composto ed elegante.

Lo guardo e lo apprezzo,
nel suo bianco, intenso,
niente sprechi di tessuti o benzina.

Procedo sul margine,
sul confine,
mi tengo sulle spine.

Pochi uomini senza fronzoli,
qualche canottiera sudata,
carretti parcheggiati,
collinette di corda.

Reti zuppe e marce,
gabbie del mare.

Anche il sole sta più calmo,
meno caldo.

Sento un pianto,
il pianto delle lamiere,

pescherecci arrugginiti,
si lamentano con ordine,
senza sovrapporsi,

i loro versi,
commuovono i pesci.

Comunicano, si cullano,
c'è chi strilla, chi soffre più dolce,
muovo le labbra piano,
declamo ciò che amo.

Pensare al futuro è profano,
la mia gamba addormentata,
il sacro.

Le formiche intrappolate,
nel labirinto di peli dei miei polpacci.

Sono giunto in una piccola oasi,
sporca ma vera,
pescatori che bestemmiano, vecchie che friggono, cani che cagano.

Oggi le formiche mordono,
m'entrano nei pantaloni,
non ho messo le mutande.

Oggi do le spalle all'orizzonte,
le onde sulle spalle, e non sulla fronte,
mi massaggiano e sospingono,
come amiche, sulla spiaggia.

Prima su di una panchina,
poi mi sposto su quella rupe,
questa scogliera,
regno delle formiche.

Dove le onde ci entrano,
ma mai abbastanza,
tra le rocce,
kili d'immondizia,
qualche filo d'erba.

Vedo la spiaggia,
poche persone arenate,
chi gioca, chi siede.

Il mare è giallo sporco,
le boe lontane,
galleggiano,
come teste di morto.

Poi l'acqua mi stanca,
guardo la collina,
penso:
"domani me ne vado in montagna, ma non domattina".

Sulla cima c'è un ripetitore,
così ripeto per ore,
questa "poesia",

creatore,
non avrò creato l'universo,
ma almeno passo le ore.

A volte l'ispirazione,
bisogna andarsela a pescare,
e come pretendere i frutti,
se non sei al mare?




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