Lo stato e il corpo

Uomini deumanizzati, esaltati e resi esempio.
Reggimenti caduti resi esempio.
Falene mutilate e bruciate, niente esempi solo scempio.
Arte degenerata, arte compressa, la complessità dei sentimenti a scoppio.

La difficoltà del binario morto,
zompando d’ombra in ombra,
in cerca di fredda visione.

L’impotenza della felicità,
filtrata a cotone, e bugie.

Ora è giorno,
osservo strabico,
sudore di lava,
perseguirò ciò che sento,
annienterò paranoia, serva dei despoti,
sarò il mio nocciolo.

Il bronzo, che oscilla, fusione,
le tracce sul selciato riempite di buoni propositi.

Le statue di sale,
immense,
imperfezioni su campo.

Strade dedicate agli assassini,
strade dedicate agli assassini.

-

Le mie labbra spaccate,
aperte, dedicate agli assassini.
Il pietrisco mi ferisce i piedi,
è quasi erotico e non esce sangue.

Il pane alimenta i demoni,
il digiuno spalanca i sensi.

Svegliandomi, grumi di lettere scritte dall’interno,
e quanto mi contraddico,
quanto mi convinco,
a pugni sulle tempie.

Smetti di credere,
smetti di pregare,
smetti di convincerti,
smetti di volere.

Smetto, e inizio,
e ascolto sfilze di dolori.
Alcuni veri, altri attori,
altri, animali da compagnia.

Smetto di scrivere,
e allora penso in eccesso,
smetto di dipingere e i miei occhi inventano,
smetto di ascoltare e le mie orecchie si girano all’interno,
smetto di tendere la mano,
e i miei tendini si spezzano.

Madre, non t’incazzare,
sono un figlio storpio nella vendita,
madre sputami ma non mi rinnegare.

Le mie costole si tengono,
disperate, alluminio.

Sulla linea della fine,
la linea dello spazio illuminato,
passa un veliero senza vele,
si stampa per due attimi contro il sole rosa,
e steso sul vetro, bocca spalancata, braccia morte.

Poco dopo è già passata,
già sfilata, semina l’astro appena sveglio,
già finito, da questa prospettiva,
volassi in altro posto,
vedrei orche in salto coordinato,
vedrei aurore boreali,
gente con la testa di cappello.

Vedrei, potrei vedere,
e ho già veduto,
piangendo muto su questa distesa di possibilità.

Il mondo è un eremo se non ti scotti,
e gli alberi immobili vanno più veloci del tempo.
Ho qualche ora per vivere e imparare a morire.

-

Voglio un’enciclopedia,
che mi garantisca l’anonimato,
che mi paghi a rubini e parli solo di percezione.

E intanto accumulo oggetti nei cassetti,
negli armadi, sotto al letto, scavo buche, casseforti, diari, scatole,
e tunnel segreti scavati nel cemento con un cucchiaino.

Perdo di vista la ragione dello spirito,
così è autocombustione,
i ripostigli si fanno forni, le tasche si bucano,
gli orologi a molla esplodono.

Leggessi i miei percorsi,
potrei prevedermi, fare lo stratega,
ma quanto è bello perdersi sotto le cascate blu dell’adrenalina.

Nudo, capelli sciolti,
sotto gocce minerali, bere dalla terra,
solo una pietra al collo.

Il legno caduto,
il muschio, tappezzeria dei signori della roccia,
pavimenti di foglia marcia,
soffici a sorpresa, senza un fondo presumibile.

E le pile di pentole a pressione.
Tutto questo t’ingoia, tutto questo ti ama, ti cattura.

Quando Achuma è con te,
le frane ti lasciano passare,
gli insetti ti salutano,
le acque ti lavano, senza spostarti.

Quando sei discepolo di un fine infinito,
le vipere ti sorridono,
hai carta, penna e ispirazione,
eppure ti arrampichi,
perché è l’esplorazione il significato.

Solo le imprese,
l’atto di scoprire,
inciso su pietra.

Quindi affondo le dita nella parete,
mi slancio tra gli arbusti,
per poi tornare sulla torre a predicare l’apprendimento.

-

Esperienza, donami esperienze,
donami tutto e io ti dono questo corpo inerte,
estensione dell’impossibile,
capace di toccare vette e non aprire un tappo,
capace di marcire e far marcire.

Questo corpo, figlio delle meduse,
questo corpo che se me lo scordo implora attenzione.

Questo corpo, guscio sacro delle mie essenze,
questo corpo braccio, sporco di sangue e incompetenza.
Questo corpo capace di aprirsi e far fluire la luce,
capace di tenermi stretto e farmi uscire.

Questo corpo,
storpio e macchina perfetta.
Questo corpo che vomita se ingoio troppo in fretta.
Questo corpo che accetto e che mi accetta.
Questo corpo che se lo amo, mi droga e mi sospinge.

Questo corpo-tempio,
che si adora da solo,
che cerca suore e monaci che seminino il suolo.
Questo suolo bastardo coperto dalle erbacce,
che poi le chiami erbacce ma magari ci curi il cancro,
forse ci mangi un anno e secche ci allunghi il tabacco.

Grande e sommo capostipite,
sciamano tra i grattacieli,
insegnante di musica,
contadino-professore,
maestro di lama, cavaliere errante,
invisibile, armatura pesante.

Conte e barone,
principessa di metallo,
cane, gatto, topo e cespo di lattuga.

Dio dei catarifrangenti,
fidanzato dei cocomeri spaccati,
verme ingordo, latitante,
ebbro, sporco.

Cerchia esigente,
setta di frenuli in fermento,
libri strappati, pagine nel vento.

-

La polvere d’acciaio,
pesa di più ma vola lo stesso,
la polvere è leggera perché dissipa la forma,
e s’accontenta d’ogni luogo, destinazione.

Ha capito che scegliere è l’illusione,
l’accettazione è la libertà che nega il caso.
Polvere saggia amica,
starnutisco in tuo onore,
starnutisco tre volte e non mi soffio il naso.

Ti trattengo volentieri,
quando vorrai colerai,
quando vorrai colerai.

Così eccola, di nuovo in viaggio,
si posa su di un cavolo cappuccio e poi sul ghiaccio.


Eccola,
fertile e sterile,
argentata come la strada,
e in effetti essere una strada è la sua unica prerogativa.

Una strada impercorribile,
una strada che la vedi per sbaglio,
poi la perdi, tra il brusio dei moscerini e lo smog handicappato.

Presto topi nutritevi,
il gatto sta dormendo,
presto topi ballate,
il gatto è ancora steso.

Il formaggio con i buchi,
è vostro prima che vi conosca,
vi accoglie con gallerie di giusta misura.

E gli alberi coi rami a chiocciola,
le grotte coi letti d’alabastro, le stelle che aspettano tranquille,
le alghe, che vestono i pesci, senza sovrapprezzi di sartoria marina.

E le conchiglie-casa dei paguri,
i pipistrelli insetticida e la rana da leccare.

Se cerchi sotto un sasso,
non credere al telegiornale,
troverai regali e miracoli,
non cercare nelle chiese.

-

Nelle chiese dell’acqua sporca di mani congiunte a forza,
nelle chiese scanner, dove i crepuscoli sono marchi di fabbrica,
le albe proseliti ,commilitoni da intingere nella cera calda.

Nelle chiese del lucro e del giudizio,
dove in cubicoli scelgono il pegno da pagare,
per un posto che è migliore,
e non cercare d’essere migliore per rendere migliore questo posto,
cammina dritto, per entrare nella serratura.

Il posto migliore arriverà.



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