Quell'odore di cristallo che taglia la diossina
Mi è sempre piaciuto il post pioggia, l’aria conserva quasi
sempre la fresca impressione dei cristalli d’acqua nel suo retroscena.
Quell’odore che tanto si declama, qui a Torino è un po’ meno eccezionale, ma la
manna si rivela nel suo secondo lavoro, quello di spazzina. Per qualche ora, o
forse solo una decina di minuti le polveri pesanti precipitano sotto il peso
delle gocce e si spalmano sull’asfalto. Non basta per dire di respirare
davvero. Ma le si deve riconoscere il tentativo, siamo noi a sgasare di nuovo,
ancora, imperterriti. Siamo noi a preferire nebbia nostrana autoprodotta, non
che ci piaccia, ma va bene così. Dante forse avrebbe dovuto costruire un
maxiparcheggio nel girone degli ignavi, perché gli ingorghi non fanno altro che
aggiungere fumo su fumo.
In campagna, nei paesini, ma anche nelle piccole città, è storia
a sé. Le chiocciole e le lumache escono a passeggiare, tante, in fila, sparse.
Per loro sfortuna noi altri facciamo in simil modo, per loro sfortuna il senso
di colpa che segue a quello scricchiolio d’uova rotte dura davvero poco.
L’inevitabile non pesa troppo sulla coscienza, e a pensarci bene quelle
simpatiche creature forse cercano solo un rapido modo per farla finita. No, non
ci credo davvero, ma se così fosse quel leggero peso potrebbe trasformarsi in
orgoglio.
“sai, oggi ho aiutato a morire in modo indolore una decina
di lumache.”
Nah, è solo il ciclo vitale. I pesci grandi mangiano i pesci
piccoli. I pesci grandi schiacciano i pesci piccoli. Ma non è che ci fanno
apposta, è che proprio viene di scatto. Come il cobra si aizza, la lepre scatta
e chi la vede più. Sta scritto nei secoli delle nostre ossa, nei codici morse
dei pori delle nostre pellacce secche, grasse, ustionate, infestate dalle
fuoriuscite della psiche.
Le aquile cacciano in coppia, i piccioni ingurgitano, il
maschio del pinguino imperatore cova le uova. È scritto nelle sfumature delle
loro piume, nel sapore del loro sangue.
Qui, in città, le lumache hanno smesso di nascere. Gli
insetti hanno smesso di volare (non tutti, loro son testardi). Qui, in città,
dopo la pioggia escono i nasi, a succhiare qualche centimetro cubo d’aria
neutra, che poi c’è da provarlo che sia pulita. Nasi che fiutano spiazzati e
con gli occhi accesi, tornano a sentire le anime, tornano a credere nella vita
oltre il cemento.
Ma sono le pozzanghere forse l’opera alchemica più
straordinaria delle metropoli. Tutto il sudicio finisce nel loro calderone e
chissà come, chissà perché, arrivano a riflettere il mondo tingendolo di una
limpidezza soprannaturale. La loro superficie restituisce tutto l’argento che è
stato fatto colare in basso.
Nelle pozzanghere se ci si guarda bene ci si trova il mondo
ripulito. Nello sporco il puro, il cristallino. Che a confronto il mare di San
Benedetto d’estate è il tipico brodetto, torbido e odoroso di corpi cotti e
mescolati.
Ma oltre i nasi, gli insetti testardi e superevoluti e
qualche matto che urla contro qualcosa, qui, nella metropoli, dopo la pioggia è
possibile individuare un tipo eccezionale di creatura. Piccoli blob di carta
abbandonati che ringalluzziti dal fluido lasciano scie collose, proprio come il
loro equivalente di campagna. Esseri
composti di cellulosa e inchiostri che strisciano sui marciapiedi a velocità
impercettibile. Cnidari dei centri urbani, molluschi dipendenti dal piombo e
dalla diossina.
Schiumano se toccati, e la loro forma può variare a seconda
della provenienza. Sono esseri fantasma, nessuno li vede ma chiunque li
calpesta. La loro bellezza condisce gli asfalti eppure la retina degli
smartphone non vede questo concetto. Il loro plasma sono le parole, i loro
organi fotografie. Sono una specie che non fa audience, ci riporterebbe alle
nostre responsabilità. Farebbe tornare i nostri nasi a vacillare sotto il peso
delle accuse. Nascono dalla nostra mancanza di senso civico ed è per questo che
non gli è concesso l’anagrafe. Sono la prova vivente del male che ricacciamo, gli indizi che ci porterebbero a scrutare meglio nel mare o nelle pozzanghere,
e cadere nel pozzo obliato delle nostre pupille hd.
Passeggiavo, godendomi il safari che le mie riflessioni
potevano permettermi. L’aria era ancora umida, ancora per qualche attimo. Nel
mio schermo interno fu proiettato un esemplare rarissimo di quei cosi, un
corallo di cartone, più grande, sul bruno che una sera d’inverno si pose sui
miei passi. Uno scoglio ribollente che un giorno mi giurai avrei ricreato in
provetta e ora ancora ci penso. Una città vivente fatta di promontori e laghi,
un continente fradicio impregnato dei cicli.
Una pressione luminosa mi batteva sulle tempie piacevole,
camminavo veloce, sbattendomi sul petto come un cucù una bottiglietta in pet
finita che duettava con il mio cuore in una jam di percussioni alternate.
Incedevo per tornare finalmente alla mia caverna di stucco, al mio caos blando,
quando m’impettii all’ordine visivo di un semaforo, rosso. Diedi una rapida
occhiata oltre le strisce e notai una donna. Poteva avere all’incirca l’età di
mia madre, indossava una lunga giacca grigia costellata di filamenti colorati e
luminosi che parevano vivi.
<< Bella giacca>> pensai, e subito ebbi voglia
di dirglielo, di mostrarle un sorriso.
L’omino si fece verde dalla speranza. Entrambi partimmo
nelle direzioni opposte, avvicinandoci. Alzai lo sguardo a lei e notai che i
suoi occhi mi stavano parlando. Le sue rughe erano lisce, dolci. Vidi la sua
bocca contrarsi in un sorriso diretto a me. Come la lepre, il cobra, i piccioni
ingordi, ciò che sta scritto nella parte interna delle mie vene, inciso, mi
fece reagire elargendo lo stesso movimento.
Seppi che mi aveva sentito. Durò un secondo, ma l’acqua del
mio organismo ribollì tutta senza accendere il gas. Cercai nel raziocinio e vi
trovai solo luce condivisa, amore per merenda. Smisi allora di cercare e mi
ritrovai in una corsia di gioia traboccante all’apparenza immotivata. Ma il
motivo in realtà c’era, era nascosto, impolverato come i giornali zuppi che
nuotano senza farsi vedere. Il motivo era quella magia che solo ogni tanto
siamo disposti a vedere, in un nugolo di sporcizia, in una vita intera, o negli
occhi di un passante che ha ruotato la tua stessa manopola per collegarsi a una
frequenza che collega.
Mi dissi che andava fissato, tenuto ben impresso, stampato a
lettere cubitali per poi poterlo divulgare. Mi sentii accarezzato, come le
parole di mia madre mai dette, riassunte e accompagnate da una polaroid del
millenovecentonovanta.
Mi dissi che ne volevo ancora,
e che era già abbastanza.
Commenti
Posta un commento