Gattarella


Avevo un tot di anni, ma pochi, perché i grandi erano davvero grandi allora. Mi ricordo che gli passavo alla vita, vedevo le gambe, non le facce. Ricordo gli shorts a righe, coloratissimi  negli anni novanta, le ciabatte di gomma e i sandali (le infradito ancora non andavano). Mi ricordo un punto di vista che si nutriva dall’alto, che pendeva dalle labbra dei miei protettori, i miei genitori. Ricordo le sfumature della loro presenza, la loro voce. Il viaggio in macchina verso un luogo di mare dal nome buffo e qualche canzone stanca e impaziente. Ci abitavamo al mare, per me non importava affatto che cambiassimo spiaggia, paesino, nazione. Quello che contava è che in vacanza si stava insieme, non c’era l’uomo nero dei grandi, il lavoro. Nessuno e niente li avrebbe portati via. Gattarella. Si chiamava così il posto, ed è curioso che di un posto di mare io ricordi svariate cose, ma non il mare. Non una vista sull’orizzonte, non una paletta né il colore banalissimo della sabbia. Quello che affiora come da un vecchio sogno non trascritto era il villaggio turistico, la stradina che collegava l’edificio dove si mangiava al resto dei bungalow e degli altri edifici. La pineta che cingeva il tutto rinfrescandolo, l’asfalto su cui poggiavo i piedi un po’ goffamente, quell’odore pungente e speziato che usciva dalla sigaretta di un uomo che camminava nella direzione opposta, mio padre che mi informava che si trattava di uno spinello. Eppure dai racconti era al mare che passavo la giornata, al miniclub, gabbietta sociale, solo a sentirlo pronunciare diventavo isterico.
Ricordo l’ora in cui si cenava, l’ingresso del salone da pranzo, l’affollamento e il buffet, che quando sei cucciolo ti pare il paradiso e poi impari a vederci l’inferno. Ricordo che qualcuno a volte ci tratteneva all’entrata, doveva esserci un gran bordello, però aspettavamo e a me saettavano gli occhi e la lingua si contorceva impastando la saliva. Mi ricordo le cipolline bianche, le rape rosse a fettine in agrodolce. Ne mangiavo a mucchi. Il resto era il contorno, non certo quegli strani cibi croccanti e nuovi. Tutto il resto non è nei miei archivi, zero. Cipolline e rape rosse, solo loro, null’altro. Non un dolce né un primo. L’immagine, l’odore, il sapore, la consistenza. Cose rimaste annidate per decenni nel mio gusto. Questa sera ho mangiato mezza rapa rossa cruda, l’ho irrorata di aceto di mele e un po’ di sale e mangiata con le bacchette, e mentre mi scrocchiava soave in bocca io ero lì, a Gattarella. Mancavano solo le cipolline.
Oltre al primo fresco odor d’hashish e alle prime cipolline e rape rosse fu lì che credo di aver avuto il mio primo attacco di panico, o qualcosa di simile. Qualcosa di simile a un incubo non a fuoco, forse per le lacrime che trattenevo nel vano tentativo di non perdere il controllo.
Ero solo, perso, e tutto era così dannatamente grande e irriconoscibile. Tutto sembrava così uguale, indifferente. Gli edifici, le strade, le gambe dei bagnanti. Tutto era contenitore e io contenuto rimescolato. Presi a guardarmi attorno e quelle prime e uniche due facce non si vedevano. Mi aggiravo, schiaffeggiando il cemento bollente con le mie ciabattine, ma non un volto che i miei scanner riconoscessero. Non un punto di riferimento. I passi si fecero più veloci, zigzagando e con loro i battiti del mio cuore. La mia vista iniziò a sfocarsi, il respiro a bloccarsi in gola. Da una strada in discesa corsi verso un piccolo chiosco, verde scuro, ed è questa la scena più potente. Ricordandola mi vedo in terza persona. Pineta. Gambe. Persone. Moltitudini e indifferenza. Paura.
Eccoli, li vedo, mi accolgono sorridendo. Dove cazzo erano finiti?
Scoppio a piangere, forse li abbraccio.
Non mare, una canna, verdure in agrodolce e la paura. 
Gattarella.




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