La sedia e lo scarabeo


Passeggio. 
Inizia spesso così, che passeggio e voglio svuotarmi la testa.  Che passeggio e osservo, mi spargo. 

Quartiere Lingotto, quasi sempre nelle ore crepuscolari, che questi giorni sono preso dal vedere la luce che si sfoca e proietta ombra sui palazzi. Palazzi di giorno sterili e modulari che di sera rivelano l’aura di chi li abita. Il caldo aiuta, fa tenere ben aperte le finestre, le serrandine.

 Il bianco sporco, il marrone, il grigio asfalto, d’un tratto, graduale ma tratto, si disperdono, semplicemente finiscono. Oltre il vetro finiscono le proiezioni, gli umani, incubati nei loro pezzi di cemento accendono le luci. Le accendono cauti, poco per volta, pochi per volta. Ne accendono prima solo una, che costa, e magari ancora basta un’ora se la tenda è ben tirata e lascia affacciare gli ultimi chiari della giornata che va a spegnersi, come un mozzicone di tabacco respirato fino all’ultima brace, che costa. 

Luce in sostituzione, caldi lampadari e lampade polverose arancioni, blu neon raggelanti, televisori che psichedelici proiettano un film di riflessi sui tendaggi o sulle superfici vetrose opache, spesse. 
Abat jour sintetiche, minimali, lampadine fioche, rossicce. Da ogni finestra, si apre una concezione della vita. Dall’interno si apre all’esterno un visibile che nel giorno si confonde fino a scomparire.

Sagome di abitanti, ombre che tintinnano. Atmosfere che si sfidano in un adattamento cromatico dell’esistenza. Mi lascio guidare. Incedo. Le insegne luminose attirano gli allocchi e le falene, guidano gli occhi a collegare i punti, costellazioni elettriche urbane. Rab, passo oltre, è un bar. Mi guardo attorno, i tubi colorati sfavillano e spruzzano di azzurro perlaceo le pareti altissime. I semafori si fanno sensuali, parti di un gioco di sfaccettature. Non più unici segnali, imponenti e rigorosi, ma lucciole tricolori su velature in divenire. Seguo gli indizi, le manate dei commercianti, mi affido all’illuminazione, alla segnaletica urbana. Contemplazione dinamica. Immortalo alcuni scorci, dei bellissimi fuochi senza fiamme. Le automobili che di giorno bianche e troppo colorate non hanno una poesia, con lo spandersi della notte si sbriciolano nel discorso, si fanno pedine utili e romantiche.

Vengo fiondato, scivolando da un marciapiede all’altro, da un appartamento all’altro. L’asimmetria colora la geometria stancante dei caseggiati, tenue, alcuni antri invitano, rifiuto. 

Non c’è storia se non nei cambiamenti di tono, nessuna narrazione, solo sfumature, ottiche semistatiche che accarezzano dentro, da qualche parte e appiccano la magia. Magia di dettagli impossibili da sciogliere, installazioni temprate dal presente che gorgoglia in esse e filtra attraverso la loro pelle traslucida. Mosaico di separazioni, Mondrian casualissimi. Palpebre alzate e richiuse, truccate e sfasciate dai pugni. Ciglia cadute, sbattute, imbrattate. La città periferica, di giorno insipida, con l’oscuro si svela come arredata d’inchiostro simpatico che respira. L’urbe liberata dalle frenesie dalla sacralità dell’orario. Quando si mangia si mangia. 

Fuori dai ristoranti nugoli di persone, zanzare del pomodoro sotto lumini e zampironi, e frugali punti rossi di sigarette buttate a metà. Città che rivendica la sua potenza inclusa, cellette impregnate di esistenze sproporzionate, punti di vista, preferenze. Il mio mento non può altro che tenersi a media altezza e sollevarmi, l’aria torna a respirarsi. Zigzago senza sapere dove, scannerizzo la mappa di una visione nuova, saporita, che somiglia al sogno. Scannerizzo le vie più banali, più corte, che nel vivere diurno sono come arterie già piene. 
Tutto risplende in una nuova possibilità, i parchi si aprono verso altre gestioni, gli atrii più atri si risvoltano e da fiacche palandrane si scoprono camicie scintillanti e lustrini. Si scopre l’abitudine, il cambiamento, si differenzia la poesia dal brusco e un po’ si assorbono. Enorme sfida tra monitor, patteggiamento di un sentimento nuovo. Insegne guida, totem iniziatici della metropoli sul finire, fanali interpretano ruoli da cinema, parti riassegnate. Scorre più fluido il gioco, l’indirizzarsi. Di giorno a scatti e poi si fa liquido. Come bolle fluorescenti di nulla scoppiare su galloni di petrolio. Bellezza disvelata, intrapresa dall’orrendamente medio verso un ascendere di fasi lunari. Estetica povera del limitarsi e bastare, dispiegata sul poter cercare, vedere, incontrarsi. 

Città vaga e squallida che antropomorfizzata esegue numeri da circo, trucchi da sciamano in opera. Ammassamenti prendono senso, operano in bene i miei sensi. Riparano gli sguardi dal continuo cantiere, sfamano il bisogno, gestiscono una sacralizzazione sussurrando sottovoce un ribaltamento.

Tutto questo e sempre qualcosa in più. 
Ciondola sul mio petto la reflex con cui catturo i morbidi lucori, mi batte sullo sterno come un martello pneumatico, bussa, chiede se abbiamo finito, è stanca, scarica, la batteria segna rosso.

Quasi fatto. Giuro, quasi fatto.
Bruscamente interseco vie sempre nuove, moltissimi e interessanti  cassonetti della spazzatura, ricchi di cose in più, oggetti dell’abbandono, vittime del consumismo. 

Una ragazza dalla pelle liscia siede sull’uscio di un portone, il suo sguardo fissa in verticale verso il basso un’apertura virtuale che sorregge tra le mani e proietta la sua coscienza a intrappolarsi nella rete. Bianchissimi i suoi shorts, che rimbalzano sull’uniforme sporco della pavimentazione cittadina a rifiutarlo, un po’ come il bianco dei suoi occhi in profonda negazione. In preghiera cibernetica. 
Caracollo, leggero e un po’ stordito. Con le tensioni che si dissipano, emigrano dal mio interno, alzandosi in volo verso i balconi come spore d’energia soffiate dall’aria, smossa dai bus in corsa. Tensioni che spengo dentro e vedo volare, contribuire allo splendido inquinamento luminoso che mi culla in un errare tranquillo, sensoriale.
 Ritrovo così lo stesso azzeramento del frastuono, una simile connessione che ai poli opposti mi completa nelle fughe da questa realtà così difficilmente assorbibile. Come yin e yang, bosco e urbe. Come una madre e un padre. 
Respiro tossico, faticato e rigenerazione. 

Ribaltato a terra uno scarabeo rinoceronte dimena le sue zampette invano, come i tentacoli di un corallo di città. Mi chino su di lui e gli do un appiglio. Mi afferra con tutte le sue forze, passeggia fra le mie dita. Lo porterò a casa, lo nutrirò con lattuga e melone, scoprirò che è l’animale più forte del mondo e forse gli resta solo qualche settimana di vita. Spiccherà il volo quando meno me lo aspetto, gli aprirò la finestra.

Troverò una sedia in legno poi, imbottiture lisce e rosse, me la caricherò sulla schiena e con essa tornerò verso il mio loculo, caverna dei miei fuochi. 

Camminerò per tornare, reggendo con le mani lo schienale facendo leva sulle mie spalle. Camminerò tra i raduni d’uomini, immobili e ronzanti all’entrata delle pizzerie, fumanti mi guarderanno, interrogativi. Fischietterò fra loro a dissimulare la piccola fatica, nessuno mi offrirà aceto né tantomeno birra alla spina, ma silenziosi si apriranno a lasciarmi passare. 

Cristo urbano che ascende al suo Golgota di mattoni, portando la sua nuova croce, una sedia più comoda, che quelle dell’Ikea fanno schifo.

A morire inchiodato dagli stimoli visivi, a far scorrere di nuovo le immagini già viste e cercarne di nuove. 

A lasciarmi sfiorire, sorseggiando camomilla sul mio trono conquistato, immondizia d’altri, e tracciare con l’oro sul dorso dello schienale, 
un totem di triangoli a sacralizzare.





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